Samael – “Ceremony Of Opposites” (1994)

Artist: Samael
Title: Ceremony Of Opposites
Label: Century Media Records
Year: 1994
Genre: Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Black Trip”
2. “Celebration Of The Fourth”
3. “Son Of Earth”
4. “’Till We Meet Again”
5. “Mask Of The Red Death”
6. “Baphomet’s Throne”
7. “Flagellation”
8. “Crown”
9. “To Our Martyrs”
10. “Ceremony Of Opposites”

Strano posto, la Svizzera. Rannicchiata tra le Alpi come a nascondersi da attenzioni indesiderate, la piccola nazione dalla bandiera rossocrociata ha seguito sin dalla sua costituzione un codice di condotta politico, economico e persino culturale quantomeno peculiare, concretizzatosi in stereotipi reiterati fino a lambire il grottesco (che sia la storica neutralità in ogni conflitto o le sospette agevolazioni fiscali), i quali tuttavia non sono del tutto riusciti ad occultare agli occhi dei più acuti osservatori l’immagine di un paese e di un popolo pervasi da una qualche strana inquietudine, di cui sono principale ma non certo unico risultato la più alta diffusione pro capite di armi da fuoco in Europa e l’altrettanto massiccia presenza sul territorio di bunker antiatomici pronti all’evenienza. Questo senso di strisciante minaccia sotto una patina di benessere collettivo, senz’altro rintracciabile pure nella florida Scandinavia ma qui opportunamente coniugato al concetto di Sonderfall -e cioè l’idea di perenne stato d’eccezione dovuta all’unicità del caso svizzero-, ha avuto gioco facile nel contagiare da sempre anche i prodotti artistici elvetici rendendoli un connubio di notevole originalità formale e contenuto ricco di sottotesti perturbanti: le spettrali visioni simboliche di Böcklin e Füssli, senza stare a citare i rinomati incubi fallici estratti dall’inconscio malato di un H.R. Giger, sono infatti sintomi innegabili di uno stato mentale sempre in bilico sul baratro della nevrosi, che nel reame metallico a noi tanto caro si è reincarnato prima nel cuore di tenebra dei Celtic Frost e poi nelle claustrofobiche sinfonie dei Coroner.
Distanti quanto si vuole per quel che riguarda gli effettivi stilemi adottati, ciò che a ben vedere accomuna i due numi tutelari della musica pesante locale è stato appunto il rivoluzionare nel loro piccolo i rispettivi sottogeneri trattati, iniettandovi una dose di cupezza prima assente e che consegnerà alla Storia tanto i giri marmorei di “To Mega Therion” quanto la secchezza corrosiva di “Mental Vortex”, due totem per schiere di metallari che proprio in quei suoni e partiture così diversi dall’organicità del Thrash americano come tedesco rivedono la propria esistenza frammentata ed instabile, sebbene calata nell’ottimismo di una società occidentale in marcia verso la globalizzazione ed il progresso.

Il logo della band

Discorso abbastanza simile per “Worship Him” e “Blood Ritual”, i due full che all’alba della decade novantiana avevano fatto girare nel sottobosco autoctono e non solo il nome dei Samael, terza mostruosità a fare la sua apparizione da quelle parti stavolta però lontano dall’urbanizzata area metropolitana di Zurigo, bensì nella assai più piccola Sion localizzata nel periferico Canton Vallese. La creatura dei fratelli Michel “Vorphalack” ed Alexandre “Xytras” Locher è pertanto l’eccezione tra le eccezioni, e forte della propria congenita unicità non esita sin dai primi anni di vita a sfidare apertamente l’altro storico marchio detenuto da Tom G. Warrior e Martin E. Ain, la cui forma canzone ancora presente sotto le frequenze lancinanti lasciate in eredità dall’esperienza Hellhammer viene ancor più disgregata sotto la coltre di fango nero e deflagranti rallentamenti versataci sopra da questi nuovi terroristi delle sette note.
Ad imporre la svolta è però l’anno Domini 1993, quando non soltanto esplode una nuova scuola greca la quale deve parecchio alle chitarre saturizzate e all’andatura marziale del progetto francofono, ma entro i confini nazionali si esauriscono prima la seconda, sfortunata incarnazione dei Celtic Frost e poi la camaleontica metamorfosi intrapresa dai Coroner, sigillata da quel “Grin” che ne rappresenta tutt’oggi (salvo futuri stravolgimenti da tempo paventati ma mai ancora concretizzatisi) l’ultimo effettivo capitolo; e proprio dalle crisi ansiogene riversate su disco dallo scafato trio composto da Ron Royce, Tommy T. Baron e Marquis Marky sembrano prendere ispirazione dei Samael a cui il linguaggio del Black Metal tout-court, per quanto primordiale in origine e per di più da loro stessi già trasfigurato, inizia a stare un tantino stretto.
Nel riprendere allora in mano l’immenso terzogenito “Ceremony Of Opposites” a tre decenni dalla sua comparsa nei negozi sovviene dunque l’interrogativo su quanto strumentazione, scrittura ed altri connotati squisitamente oggettivi abbiano effettiva rilevanza nel far rientrare un lavoro discografico entro un determinato genere musicale, e di quanta invece ne rivesta il mero feeling suscitato in chi ascolta una volta che CD, LP, nastro o anche solo un misero file audio piratato iniziano a diffondere le proprie note nell’aere.

La band

Proviamo allora a sbrogliare la matassa partendo dalla copertina, dal suo soggetto di sicuro abusato in campo estremo -più tardi- ma che qualora collegato a ciò che ci attende una volta premuto play rivela l’essenza fatta e finita dell’opera in esame. Il sinistro volto del Redentore tempestato di chiodi non esprime sofferenza come in miriadi di altri artwork analoghi (si pensi al noto e pur bel disegno di Kris Verwimp per “Icons Of Evil” degli statunitensi Vital Remains), quanto più una rassegnata assuefazione al dolore la quale sfocia in una sorta di estasi uguale e contraria a quella dei santi dipinti dai pittori rinascimentali: l’effetto trasmesso è pertanto quello di una massacrante via crucis a tre dimensioni, opprimente e faticosa così come lo sono i dieci brandelli d’incubo che compongono “Ceremony Of Opposites”. Invece di ritornare al lo-fi fradicio di umori celticfrostiani di cui era impregnato “Worship Him”, i Samael spingono di contro sulla componente groovy del secondogenito “Blood Ritual” accodandosi se vogliamo allo zeitgeist d’inizio decennio rappresentato dai Pantera, ma al contempo aggiungendovi tutta la freddezza inumana dei Godflesh e finendo giust’appunto col suonare come dei Coroner votati alla maligna causa, oltre che spogliati d’ogni parvenza di dinamica. La batteria sarà anche stata percossa (per l’ultima volta) da Xytras con bacchette e pedali, e tuttavia quel ritmo cadenzato comune anche all’asetticità sonora delle chitarre, quasi robotico che si affaccia sin dall’introduttiva “Black Trip” per non andarsene mai più via non ha assolutamente nulla di analogico né tantomeno di umano, ossessivo a tal punto da rendere l’ascolto una prova di resistenza non indifferente per qualsiasi pubblico; si rischia quasi di perdere l’orientamento, confondere i brani tra loro e ritrovarsi a fine corsa senza averci capito granché, avviluppati in una sindrome di Stendhal che pochissimi altri album possono causare.
A seguire la dolente marcia verso il Golgota, la chitarra di Vorphalack e soprattutto le corpulente quattro corde pizzicate da Masmiseîm assicurano al platter una minima dose di catchiness viaggiando tra dozzine di riff sensazionali nella loro inusitata pesantezza, i quali rendono l’intero “Ceremony Of Opposites” tra le altre cose pure un’appassionante sfida per chiunque abbia un cordofono a portata di mano, ed un po’ di tempo libero per impararsene i molti giganteschi giri scolpiti dagli svizzeri nella rocciosa produzione: le varie “Celebration Of The Fourth”, “’Til We Meet Again” e “Mask Of The Red Death” prendono alle budella col loro incedere massiccio ed inarrestabile, così come il deflagrare pachidermico della mostruosa quanto iconica “Baphomet’s Throne” nel cui incipit, oltre al costante groove assassino, viene messa in luce l’importanza delle algide tastiere qui ancora forse non protagoniste, e nondimeno necessarie nello smorzare la tensione con la loro evanescente presenza specie su di una “Flagellation” dove i ritmi accelerano leggermente e, per qualche attimo, si intravede con influente lungimiranza visionaria proprio dove andranno a parare i non soli Samael della seconda metà dei Novanta.

Al contrario di quel che una prima lettura del titolo possa far pensare, “Ceremony Of Opposites” non costituisce propriamente un punto di incontro tra vecchi e nuovi Samael come spesso è stato proferito da analisti se vogliamo poco attenti, ma semmai un’estrema conseguenza dello shift maturato nell’arco dei due full-length venuti prima; non punto d’intersezione dunque, quanto più quello di arrivo prima di una ribellione in formato extended play succedutagli di appena un annetto e dopo la quale sarebbero arrivate glaciali visioni cosmonautiche supportate da strutture compositive maggiormente elaborate e monumentali tasti bianchi e neri in bilico tra sentori ora industriali ed ora gotici. Nulla insomma a che vedere col terzo parto dei fratelli Locher, che invece resta un nerissimo capitolo a parte e chiuso nei confronti del resto della discografia così come nelle sue effettive trame sonore soffocanti e misantropiche, le quali in una retrospettiva anche a distanza di tre decadi rendono oltremodo difficoltosa un’analisi delle varie tracce in favore di una lettura dell’opus come di un blocco unico (abusata definizione che se da una parte rischia di risultare semplicistica nonché poco invitante ad un riascolto, dall’altra funziona qui come in pressoché nessun altro caso al mondo).
Come detto in apertura, certi album sfidano le convenzioni di un genere senza però apportare differenze più o meno sostanziali a quanto inciso in precedenza, bensì ponendosi quasi del tutto al di fuori di quei canoni e provando, con suoni o partiture completamente aliene, a replicare quelli che dovrebbe esserne almeno secondo i creatori la filosofia e l’impatto emotivo di riferimento: tra di essi, il cupo viaggio fino al trono di Baphomet compiuto dai Samael nel 1994 tra flagellazioni e corone di spine si rivela ancora oggi difficile da sopportare persino per i più irriducibili consumatori compulsivi di prodotti musicali estremi, e viene difatti troppo spesso tenuto in secondo piano rispetto ad altri classiconi di quell’annata i quali, ognuno beninteso coi suoi indubbi meriti, non hanno mai avuto quell’aria di concreta minaccia allo status quo del Black Metal di cui la Svizzera, e la sua malefica covata tutt’ora in azione, hanno fatto una vera missione per conto del Diavolo.

Michele “Ordog” Finelli

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